Editoriali
Muovo i primi passi nella mia nuova comunità.
Mi guardo attorno, incontro le persone, giro curioso in bici per il quartiere alla scoperta dei luoghi. È tutto nuovo.
Confesso che Colognola è un pezzo di città che mi mancava.
Eppure sono stato curato d’oratorio a San Tomaso, quindi Colognola avrei pur dovuto conoscerla, no? Tutto il mio ministero finora si è svolto pressoché in città, tranne una manciata di anni in Valle Taleggio e un ritaglio temporale a Curnasco.
Insomma, ci ho girato attorno al nostro quartiere. Adesso ci sono proprio dentro. È una bella sensazione anche se a volte mi sento letteralmente spaesato. So che ci vuole tempo, ci vuole molto tempo. Come in tutte le cose. Cerco di mettermi in ascolto, ma intuisco la necessità di dover prendere già decisioni impopolari.
Probabilmente scontentando o deludendo. Troppo presto per esprimere giudizi. Sarebbe ingeneroso. In questi giorni, pensando e ripensando al mio inizio, mi sono venuti in soccorso un paio di scrittori. E così mi sono lasciato ispirare da loro.
Per esempio, Antoine de Saint- Exupéry, l’autore del notissimo Il piccolo principe, suggerisce la postura corretta degli inizi quando scrive: “Se vuoi costruire una nave non richiamare prima di tutto gente che procuri legna, che prepari gli attrezzi necessari, non distribuire compiti, non organizzare lavoro.
Prima risveglia invece negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato.
Appena si sarà svegliata in loro questa sete gli uomini si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.
Ecco ciò di cui abbiamo bisogno, ecco quello che mi pare di avvertire dai primi scampoli di racconto pastorale: la nostalgia del mare. Che è simile alla nostalgia delle cose grandi.
La comunità prima di tutto è aver sete. Non di cose nuove, ma di quelle condizioni necessarie che la rendono non un semplice assemblaggio di scombinate singolarità; ma una casa in grado di ospitare differenze e alterità.
L’impresa che ci attende è quella di sentirci e far sentire a casa. E, a proposito di casa, è tornata alla mente la grande scrittrice americana Marilynne Robinson, quando nel suo romanzo Casa, appunto, scrive: “Per lei chiesa era un’ariosa sala bianca dalle finestre alte affacciate sul buon mondo di Dio, in cui la buona luce del sole di Dio si riversava da quelle aperture e lambiva il pulpito dove suo padre, eretto e forte, sezionava il cuore infranto dell’umanità ed esaltava il cuore amorevole di Cristo.
Quella era chiesa”. Immagino la nostra chiesa una cosa così, quella che mi piacerebbe abitare e frequentare: un’ariosa sala, perché la chiesa oggi ha un tremendo bisogno di aria; una sala bianca, perché solitamente gli altri vedono noi cristiani come omini un po’ tristi e grigi; e poi le finestre, tante e che siano ben affacciate sul buon mondo di Dio, sì perché il mondo è buona promessa nonostante tutto e noi credenti dovremmo essere i primi a gridarlo a tutti.
Una chiesa che non ha finestre sul mondo è spacciata, deve essere coraggiosa, invece, guardare fuori, deve imparare a sporgersi su tutte le umanità che le capita di incontrare, senza aspettare che gli altri le guardino dentro. Mi sembra che abbiamo bisogno di costruire una chiesa-casa dove c’è davvero posto per tutti. Coltivare le relazioni, innanzitutto, a tutto tondo, promuovere un sano e serio laicato, rigenerare il tessuto del corpo comunitario, rimettere al centro la Parola, celebrare in modo elegante, avere a cuore gli ultimi, dialogare con la realtà del quartiere, imparare a riconoscere il vangelo dove lavora e cresce (perché non sempre cresce dentro le mura delle nostre comfort zone devozionali). Soprattutto, coltivare un sogno. Senza non si va da nessuna parte. Per questa sola ragione ho pensato opportuno convocare una Giornata della comunità nella quale ascoltarsi, raccontarsi e immaginare ancora tanto oltre al molto che è già stato fatto.