Editoriali
Don Massimo Maffioletti
Grazie a tutti dell’accoglienza. Ringrazio, innanzitutto, il vicario territoriale della città, don Angelo Domenghini, che a nome del vescovo Francesco ha gentilmente voluto presiedere il mio ingresso in Colognola, voluto in forma semplice ed essenziale. Ringrazio il parroco che mi ha preceduto, don Francesco, per il servizio che ha reso a questa porzione di chiesa affidatami: grazie per aver accompagnato il delicato passaggio. Non ha potuto essere qui con noi stasera. Ringrazio i collaboratori della comunità che stanno facendo di tutto per farmi sentire già a casa e gli stretti compagni di viaggio, don Renzo e don Matteo: già li conoscete, hanno sostenuto la comunità in questo avvicendamento. Con noi si aggiunge anche don Giuliano Zanchi: impareremo presto ad apprezzare la sua parola e il suo pensiero. Grazie a chi ha preparato questo appuntamento, specialmente ai ragazzi di Doremifa dell’associazione Ceralacca. Grazie agli amici di Longuelo che hanno voluto accompagnarmi in questo tratto di strada, piccolo segno del cammino di sedici anni vissuto insieme. Come dice qualcuno: nella vita si girano pagine, ma non si chiude il libro.
A piedi in nome della pace
Il tragitto a piedi ha una doppia caratura simbolica: da una parte non c’è niente di più umanamente evangelico che camminare insieme, la strada ospita le differenze, ci si mette in ascolto dello “straniero” come i discepoli di Emmaus, permette la condivisione e favorisce l’incontro: è il senso del sinodo (σύν-oδός) e dovrebbe diventare uno stile pastorale; camminare, poi, assume il profilo etico del viaggiare leggeri (Alex Langer), abbandonando il superfluo e facendosi bastare l’essenziale, e rispettando l’ambiente e la città. Nel ricordo di san Francesco e su invito di Francesco papa abbiamo camminato in pace e per la pace, per la fraternità tra i popoli, abbiamo camminato anche per e con molti poveri invisibili della nostra città che non dovremo trascurare. Dall’altra parte, il breve cammino intende proporsi come un filo sottile che idealmente unisce due comunità, due periferie della Bergamo sud-ovest – Longuelo e Colognola –, per unire tutte le chiese della città: sarebbe infatti importante pensarci come una chiesa per la città piuttosto che limitarsi ad essere una città di chiese. Anche questo sarebbe molto sinodale.
Giungo in una comunità dalla ricca storia e dalle numerose tradizioni. Mi ci vorrà un bel po’ di tempo per familiarizzare. Chiedo pazienza. Intanto entro con la curiosità di conoscere (e ri-conoscere) i semi di bene che nel tempo hanno generato una storia significativa.
La parrocchia e la secolarizzazione
Come tutte le comunità immagino che anche Colognola sia segnata da una pronunciata secolarizzazione che noi credenti parrocchiali fatichiamo a comprendere, fissati come siamo su un modello di cristianità che però non c’è più o che quanto meno oggi appare inadeguato.
Le comunità cristiane sono sempre più chiamate a fronteggiare sfide culturali per le quali non hanno grandi strumenti. Nella nostra diocesi si pensa (quasi) sempre che il fronteggiamento di una società, che non sembra più tener in conto la narrazione cristiana, debba essere risolto o riproponendo il modello di un’evangelizzazione dal chiaro obiettivo identitario oppure insistendo su quei “must” pastorali che oggi non fanno più la fortuna delle nostre parrocchie ma che ci illudiamo lo possano essere ancora: le grandi devozioni popolari, per esempio, i sacramenti e perfino la stessa eucaristia, che pur essendo il cuore della vita cristiana, oggi risulta essere faticosamente comprensibile perfino ai cosiddetti vicini e ai fedeli appartenenti.
Il vangelo come risorsa per il mondo
Il compito sostanziale di un pastore – tra i mille che vengono a lui assegnati – credo debba essere quello di accompagnare la transizione del cristianesimo parrocchiale, anche se non ci sono grandi ricette e l’impegno enorme della Chiesa italiana per offrirci buoni spunti per un autentico cambiamento di paradigma pastorale a volte non trova il coraggio sufficiente per decollare. Registriamo la fine di un modello di cristianesimo parrocchiale, anche se è solo la fine di un certo cristianesimo. La forza ispiratrice del vangelo non si è esaurita: dobbiamo solo imparare a raccontarlo meglio, presentarlo cioè come uno stile credibile di vita nel quale si gioca l’umano di tutti e non come il semplice insieme di gloriose pratiche di pietà.
Il vangelo può essere ancora una risorsa per la cultura del nostro tempo (François Jullien), ma dobbiamo avere più coraggio e audacia profetica. La risorsa del cristianesimo è quella di proporsi come un rinnovato umanesimo. Il vangelo è innanzitutto portatore di questo umanesimo al quale anche noi credenti dovremmo assicurare le nostre migliori energie. E metterci tutta la nostra fede.
Giuseppe Dossetti indirizzò al cardinal Martini il seguente biglietto quando fece il suo ingresso a Milano: “Porta il vangelo e solo il vangelo”. Prego, pregate perché sia così anche per me.
Essere pastore e fratello di tutti
Entro in questa comunità e in questo quartiere come un uomo di sessantadue anni non più giovane, entro come cristiano che deve ancora imparare a credere, entro come pastore che sta soprattutto a fianco o dietro (più che davanti). Entro con la mia passione per l’umano, per il vangelo e la chiesa. Sono consapevole che questa sarà la mia ultima esperienza pastorale parrocchiale, e spero sia promettente. Non tanto per me, quanto per la comunità. Spero di onorarla e servirla. Ci sono sempre troppe attese negli ingressi dei parroci, c’è ancora molto investimento sul ruolo sacrale del prete, il quale pur assumendo il compito della sintesi dei ministeri e carismi della comunità non può più certo essere percepito come il solo e unico uomo al comando. Metto le mani avanti, per non creare aspettative che non sarò in grado di onorare: non sono mai stato né ho mai voluto essere un funzionario del sacro, né sono uomo dallo spiccato e specchiato afflato devozionistico. Potrei rivelarmi in partenza come una delusione. Ho sempre pensato, però, che il cristianesimo non fosse tanto (o soltanto) una religione quanto un modo di essere uomini, una maniera di stare al mondo (“Essere cristiani non significa essere religiosi… ma significa essere uomini”, Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa). Interpreto il mio ministero etimologicamente come minus ter – il “minore tra” – più che come maestro – magis ter (il “maggiore tra”). L’unico maestro è il Signore. Io sono solo un servo inutile. Mi piacerebbe essere un frater con altri fratres – fratelli – che si prendono per mano per spezzare insieme il pane del vangelo e della carità, come nella più alta e feconda tradizione della chiesa (Yves-Marie Blanchard, Contro il clericalismo, ritorno al vangelo). Come Francesco d’Assisi, di cui oggi celebriamo la memoria, ha scelto di vivere. A proposito, Francesco diceva ai suoi fratres: “Predicate sempre il vangelo. E se fosse necessario anche con le parole”.
Vorrei essere soprattutto un uomo di comunione. Del resto, i discepoli saranno riconosciuti soltanto dall’amore gli uni per gli altri. Vorrà pur dire qualcosa l’invito testamentario del nostro unico maestro?
Il laicato e la sensibilità femminile
Non ha senso fare promesse né entrare con chissà quali programmi. Però alcune prospettive è giusto abbozzarle subito: innanzitutto, la promozione di un laicato maturo che accompagni con reali e concreti ministeri il ministero del pastore e non sia un semplice vassallo o valvassore del prete. Vorrei collaborare con dei laici e non governare degli yes man. Spero inoltre che la nostra comunità cristiana si apra all’ascolto della sensibilità femminile, riconoscendo alle donne finalmente il giusto posto nella chiesa. Non nascondo che, proprio perché molte donne e uomini non si riconoscono più nei nostri discorsi cattolici parrocchiali – eppure ciò nonostante sentono di essere in ricerca –, sarà importante imparare ad essere là dove è l’umano di tutti. Non è un mio core business tornare a riempire la chiesa. Non so nemmeno se sia lo scopo del vangelo: Gesù del resto ha bazzicato poco il Tempio. La radicalità evangelica chiede di vivere umanamente in questo mondo dove questo mondo vive. Il compito dei cristiani è imparare a riconoscere il vangelo là dove “lavora”, magari lontano dalle nostre chiese e non sempre secondo i nostri riti. Impariamo a “disseppellire Dio dal cuore di tante persone” (Etty Hillesum), lasciar essere il vangelo là dove vuole essere senza costringerlo in stretti e chiusi angoli ecclesiastici. Non dobbiamo sequestrare il vangelo – immaginando di essere gli unici a poterlo possedere e annunciare – ma lasciarlo libero di essere e di dirsi, anche attraverso storie, voci, corpi, pensieri che non ci aspetteremmo mai. L’incontro con l’altro è il primo autentico sacramento.
In questi anni ho smesso di avere la pretesa che il mio compito fosse annunciare il vangelo. Credo che il mio compito sia riconoscerlo già al lavoro tra le pieghe del mondo, sul volto di tanti estranei o stranieri, come i discepoli di Emmaus. Questa è la forma del mio annuncio.
Il quartiere e la città
Lavorare per il bene del quartiere – perché il bene del quartiere è anche il bene a cui tende il lavoro pastorale di una parrocchia – mi pare sia un altro obiettivo pastorale. Il principio di incarnazione ci chiede di essere-fare corpo con questa porzione di mondo che vive in Colognola. Ci deve stare a cuore “la città dell’uomo” (Giuseppe Lazzati). È un’esperienza vissuta a Longuelo: la porto in dono qui.
Assicuro già il mio ricordo e la mia preghiera per le famiglie e le nuove generazioni, altra sfida immensa. Chiedo a tutti voi una preghiera sincera (o qualcosa di simile) per questa avventura che si presenta affascinante e sfidante. Un’avventura che deve assomigliare a una nuova Pentecoste. Per me. Per la comunità.
Affidiamo il cammino a Maria. La sua tenerezza e la sua dolcezza orientino i nostri passi. Buon cammino.