IL SIGNORE SCRIVE DIRITTO SU RIGHE STORTE
IL SIGNORE SCRIVE DIRITTO SU RIGHE STORTE

Fra poco non sarò più parroco in questa comunità.


“Il discredito in cui è caduto il principio di autorità più che dalle personali indegnità degli uomini che ne sono investiti, fu procurato o almeno accresciuto dai cortigiani e pavidi silenzi. Chi non vuole imparare ad obbedire in piedi, o perché tale obbedienza non gli rende o perché ne ha paura, deve rassegnarsi a sentire sul collo il piede dell’uomo”. don Primo Mazzolari

Non avrei immaginato, fino a pochi mesi fa, di dover ancora ritornare nella
condizione di fare un esercizio di “obbedienza in libertà” o, come scriveva don
Primo Mazzolari, di mettere in atto una forma di “obbedienza in piedi”. Nella
mia esperienza mi sono via via sempre più persuaso che senza adesione libera
l’obbedienza non è un atto umano, ma sta al di sotto della dignità della persona. Così “l’obbedienza in libertà” la considero un’autentica pratica sinodale, vissuta e talvolta sofferta. Accettare la decisione, comunicatami dai superiori lo scorso febbraio, di lascare il servizio pastorale quale parroco di questa comunità di Colognola, perché raggiunto e superato il termine del mandato, l’ho considerata un atto di “obbedienza in piedi”. Il confronto sincero e schietto, a tratti anche appassionato, ha messo sul tavolo una serie di tematiche, questioni e opzioni che alla fine si sono concretizzate in quanto poi è stato deciso e, successivamente, comunicato.
Non intendo entrare in merito alla vicenda che considero conclusa, aperto ancora a nuovi e stimolanti orizzonti dello Spirito, convito che: il Signore scrive
diritto anche su righe storte. Piuttosto, giunto al termine di questa esperienza
pastorale vorrei consegnare alla riflessione comune alcune provocazioni, anche
per favorire spazi di accoglienza e condivisione sinodale che questo avvicendamento porta con sé. Infatti la parrocchia non finisce, come non incomincia con il parroco, chiunque esso sia. Comunità cristiana e prete stanno come Chiesa, solo se insieme, ciascuno con il proprio specifico carisma. Nel contesto attuale tuttavia il prete potremmo, usando una metafora, immaginarlo come un vaso di vetro tra due vasi di marmo. Infatti dal Vaticano II in poi emergono due sottolineature: l’autorità dell’episcopato dalla quale deriva comunque ancora la “centralità” della Curia e la corresponsabilità dei fedeli laici. Il prete vede così modificata la sua figura nell’accentuazione della responsabilità amministrativa (in quanto comunque “legale rappresentante”), come pure quella di recuperare una sua leadership perduta, attribuendosi ruoli socialmente utili. L’articolata vita sociale e la sempre più frammentazione dell’azione pastorale rischiano di mettere in difficoltà il nesso tra la sua dimensione interiore-spirituale e l’accresciuto l’impegno pastorale. Se a ciò aggiungiamo l’accelerazione nei trasferimenti dei parroci dopo appena 9 – 11
anni, l’esito può esser quello di percepirsi quali dei funzionari. In questo contesto appare come la ricomposizione identitaria del prete nell’equilibrio tra vocazione e missione, si ponga nella necessità di recuperare il primato dell’annuncio della Parola dentro un tessuto comunitario di relazioni. Senza annuncio non si dà comunità cristiana e quindi non si dà eucaristia. La crisi odierna che investe sia il prete sia il laico nella Chiesa, come si evince anche dalla scarsità di vocazioni al sacerdozio e la riduzione del numero dei fedeli con il conseguente svuotarsi delle Chiese, non sta prima di tutto né nel clericalismo, né nella mancata valorizzazione dei laici, quanto nella mancata centralità nell’azione pastorale della Parola di Dio e del suo annuncio. L’identità del prete ha quindi a che fare con l’annuncio della Parola, a ciò che il Magistero chiama Munus profetico, nel rapporto cioè tra vita personale e ministero descritto anche nei termini di “carità pastorale”. L’identità ha a che fare quindi sia con
l’obbedienza sia con la libertà del prete che potremmo definire, usando le parole di don Mazzolari: una “obbedienza in piedi”. Non può essere né la sola
volontà del prete, né “il volere” del superiore a decidere i luoghi concreti del servizio, ma un più ampio discernimento ecclesiale - sinodale nel quale, in ultima istanza ci colga come sia Signore stesso a “decidere”. La libertà pertanto non coincide con lo scegliere o il mantenere nel tempo la forma del ministero secondo il proprio desiderio. Si tratta piuttosto della libertà da ogni forma di solo “potere - volere” sia esso indicato dal prete, come dal superiore o quale “volere” dalle comunità stessa. Questa prospettiva apre uno spazio di libertà nei confronti di ogni forma concreta di ministero. Una libertà non facile, ma autentica nel suo dispiegarsi: lascarsi portare dal Signore dentro il vivere ecclesiale. Così adesso, mi lascerò “trasportare dal Signore”. Dopo 28 anni smetterò di fare il parroco. Collaborerò in una parrocchia e continuerò con gli incarichi extra diocesani come faccio da anni. Così, obbediente e libero.


don Francesco Poli