Quando i figli diventano “padremadre” dei loro stessi genitori
Il cantautore Simone Cristicchi ha portato sul palcoscenico di Sanremo una canzone dolcissima sulla fragilità della madre dalla quale imparare a diventare uomo.

«Quando sarai piccola ti aiuterò a capire chi sei, / ti starò vicino come non ho fatto mai». Quando sarai piccola è la canzone portata da Simone Cristicchi a Sanremo. Difficile trovare altri versi che in modo così poetico e delicato raccontino un’esperienza che prima o poi gli adulti della mia età si trovano a vivere: i nostri genitori a un certo punto ritornano piccoli. I figli spesso diventano “padremadre” dei loro padri e madri e i genitori si ritrovano “figli dei loro figli”. È una condizione probabilmente inedita. La ricerca medico-scientifica ha fatto passi da gigante, allungando l’aspettativa di vita di almeno vent’anni. Non era così forse per le generazioni di inizio secolo. Dobbiamo essere grati e salutare positivamente queste conquiste. Lo stato di benessere generale e la qualità complessiva della vita offrono oggi molte più possibilità di una volta – prestazione sportiva su tutte ma nello stesso tempo si affacciano all’orizzonte scenari di imprevedibili e complesse fragilità. Il corpo regge l’urto del passare degli anni, ma la mente entra nel cono d’ombra di insondabili misteri. Chi di noi ha familiarità con le case di riposo, oggi elevate al nobile rango di residenze sanitarie assistenziali (Rsa), potrebbe raccontare l’enigma che si impossessa dell’esistenza di molti anziani, dei loro corpi, dei loro sguardi e dei loro pensieri. Personalmente lo registro sovente negli incontri con i figli che vivono l’età della pensione nell’accudimento e nella cura dei genitori. Lo fanno per senso di restituzione, per debito esistenziale, o semplicemente per gratitudine e riconoscimento.

Chi può resiste all’idea di “sistemare” il genitore in una struttura consona, per qualcun altro questa non è per nulla una scelta. Invecchiando, il tema in me si è fatto ancora più sensibile. Del resto, il processo sembra inaggirabile: la città, l’Italia invecchia – il 25 percento della popolazione è sopra i sessantacinque anni, uno su quattro, per un totale di quattordici milioni – la “quarta età” richiede sempre più istituti ed enti per la lunga degenza, i posti letti vanno implementati. Noi potremmo assumere i freddi numeri dell’andamento demografico con il cinismo di chi espunge il problema relegandolo appunto alle strutture deputate (e costosissime), alimentando magari la “cultura dello scarto” denunciata da papa Francesco, in nome di quel vitalismo che tanto va di moda nella società “post-mortale” della performance e del funzionalismo e che ha scelto il “no limits” come la postura più accreditabile.
Furoreggiano le ipotesi scientifiche per guadagnarsi un posto nei paradisi dell’immortalità (quella tecno-digitale c’è già e le promesse dell’Intelligenza Artificiale sembrano non ingenuo pionierismo).
Oppure, come il cantautore romano, potremmo assumere un altro paradigma di riferimento, quello in cui la dimensione della fragilità, della debolezza, della mancanza (di energie, di forze) sia la cifra di quel limite che misura il criterio del nostro essere squisitamente e solamente umani. Immaginare, cioè, che la morte non sia un brutto incidente di percorso o una fastidiosa iattura da eliminare, ma il compimento, la compiutezza dell’esistenza. Vivere la fragilità dei genitori non come un ostacolo ma come un’opportunità per capire il senso radicale della vita. Solo a fronte dell’accoglienza di questa impotenza esistenziale – così evidente nella “età grande” degli anziani – potremo riconoscerci nell’esperienza cantata da Cristicchi che di fronte alla immensa debolezza della madre risponde con la dolcezza e la tenerezza del figlio “padremadre”: «Quando sarai piccola ti stringerò talmente forte / che non avrai paura nemmeno della morte / Tu mi darai la tua mano, io un bacio sulla fronte / Adesso è tardi, fai la brava / buonanotte».